- 2 January 2019
- Posted by: Curatore
- Category: Cryptovalues News, Fiscal
Ad un anno dalle quotazioni stratosferiche dei bitcoin, quasi 18.500 USD, il valore della principale moneta virtuale è crollato a 3.400 USD. Le ragioni di tale ridimensionamento sono note a tutti gli operatori del settore: ci sono state correzioni cicliche e soprattutto sono state fermati in tutta Europa i programmi di collocamento (ICO) delle nuove monete digitali e dei oramai famosi Token, che per la loro particolare funzionalità trascinavano al rialzo tutto il comparto Crypto.
Tuttavia ci si chiede da più parti che fine hanno fatto le fortune calcolate alla fine dell’anno scorso? Quali sono stati i risvolti patrimoniali dei detentori di queste effimere fortune? Ed in fine, la curiosità maggiore: costoro hanno pagato le tasse?
Da un’analisi eseguita appare che il fenomeno degli investitori ha generato due categorie principali con due approcci diametralmente opposti tra di loro. Vi sono gli investitori “integralisti” che non hanno venduto nulla nella speranza di incrementare oltremodo i valori già alti, e poi c’è stata una cerchia ristretta di investitori “coraggiosi” che hanno convertito parte delle posizioni in Crypto con moneta sonante per paura di crolli.
Sul tema risulta profittevole approfondire le ragioni di tali scelte, in quanto si scoprirà che vi sono state due decisive motivazioni, quali il fisco e le funzioni antiriciclaggio delle banche.
Il Fisco
Nell’autunno del 2017, come tutti sanno, l’Agenzia delle Entrate ha iniziato a rilasciare una serie di risposte (tutte uguali) a interpelli volti ad interpretare trattamento fiscale delle plusvalenze derivanti dalla negoziazione delle criptovalute.
Come risaputo le risposte fotocopia sono molto discutibili in quanto si basano su un assunto totalmente errato: basandosi sul principio che gli e-Wallet sono assimilabili ai depositi bancari in valuta, l’ADE ne ha fatto discendere tutta la normativa sulla fiscalità delle divise straniere detenute da soggetti non esercenti attività professionale. Secondo l’ADE pensiero, dunque, “estrarre” un Bitcoin da un e-Wallet magari per spostarlo in un altro e-Wallet più sicuro, equivale ad estrarre valuta estera e come tale tassarla seguendo le norme (plusvalenze tassate al 26%, quando la giacenza di criptovalute risulta (i) superiore a 7 giorni e (ii) quando il saldo giacente è superiore a Euro 51.645,69).
Tuttavia l’interpretazione che la Dottrina dà della Norma porta a disconoscere l’assimilazione dell’e-Wallet al deposito bancario in valuta e conseguentemente a considerare le plusvalenze da negoziazione di criptovalute come “operazioni a pronti” e come tali esenti (cfr. Risoluzione 72/E del 2 settembre 2016). Tale interpretazione dottrinale trae origine dalla definizione che Banca d’Italia dà dei depositi e conti correnti; infatti la Banca definisce il “deposito” (anche in valuta) come un deposito bancario che integra totalmente le caratteristiche della raccolta del risparmio e non dunque un comune deposito inteso come luogo di custodia. Non a caso le carte di debito (emesse dagli IMEL, come le carte prepagate o di debito) non integrano la raccolta del risparmio (no interessi, no credito, nessun collegamento con il conto corrente come il bancomat) e pertanto, come tali, non integrando un deposito bancario, non sono soggette alle imposte del bollo sui conti bancari e dunque fiscalmente non sono considerati depositi bancari.
In buona sostanza, le IMEL ed anche le IMEL in valuta sfuggono alla giacenza in argomento (c.d. >51/7) perché non sono depositi (di natura totalmente bancaria) secondo la definizione tradizionale. Sulla base di tali affermazione, per quali ragioni i wallet dei BTC devono invece essere considerati alla stregua dei depositi? Essi non sono nemmeno IMEL; non sono creati da Istituti autorizzati ad emettere IMEL, ma sono stati creati da comuni ingegneri informatici
La funzione AML
Contemporaneamente in Europa, Italia compresa, e soprattutto nella permissiva Confederazione Elvetica, il sistema di audit della banche che vigila sulla provenienza dei fondi dei clienti (AML – Anti Money Laundry) ha registrato a fine 2017 una importante stretta sui controlli da eseguire e sui test di ammissibilità della provenienza delle suddette fortune digitali (tale stretta ha rappresentato la principale motivazione che ha comportato lo Stop pressoché integrale dei programmi di ICO e Token). In buona sostanza oggi, per aprire un conto bancario ed ivi ricevere fondi in Euro derivanti dalla dismissione di criptovalute, l’investitore deve subire una approfondita verifica delle transazioni ed una accurata ricostruzione della loro provenienza. Tuttavia, non sempre nel passato i wallet e gli exchange company hanno conservato i log delle operazioni (molti sono stati chiusi, o sono falliti o semplicemente non rispondono) e pertanto oggi potrebbe essere difficile od impossibile ricostruire il passato digitale per eseguire l’adeguata verifica “rafforzata” bancaria.
A questo punto l’investitore in criptovalute, nel dicembre 2017, coi corsi dei Bitcoin che sfioravano i 19.000 USD, ha dovuto prendere una decisione importante: restare nelle posizioni in Bitcoin sia per non pagare le tasse e sia per non subire un terzo grado da parte della propria banca, oppure, coraggiosamente, affrontare la Funzione AML della banca, incassare Euro nei propri conti correnti e poi pagare le tasse nel 2018.
I più hanno deciso di restare nelle loro posizioni, di non emergere fiscalmente né tanto meno di subire una adeguata verifica rafforzata dalla banca. Tuttavia costoro hanno poi subito il più grande tracollo di valore della storia moderna delle bolle finanziarie (quella più famosa resta tuttavia la bolla dei tulipani nell’Olanda del XVII secolo). Ad aggiungere elementi di negatività ci ha poi pensato il Fisco con le sue interpretazioni assurde: infatti alcuni di loro nel 2017 (in piena bolla) spostando i Bitcoin da un e-Wallet ad un altro per esigenze di sicurezza informatica, si sarebbero qualificati teoricamente come soggetti passivi e debitori d’imposta, nonostante non avessero convertito nulla in Euro.
Ma vi è di più. Questi soggetti “integralisti” mancando totalmente ogni elemento di adesione al sistema fiscale e AML bancario, si sono autorelegati al medesimo ruolo dei comuni evasori. Il parallelismo è facile: sia i criptoinvestitori che i comuni evasori, hanno entrambi a disposizione moneta abbondante, tuttavia entrambi la devono celare a tutti; in pratica non li possono spendere liberamente per acquistare beni e servizi, salvo andare a fare la spesa al supermercato. Infatti con le leggi attuali non è possibile eseguire spese per importi superiori 3.000 Euro, in quanto tutte le spese oltre tale soglia sono inesorabilmente censite e controllate dal sistema centrale della nostrana intelligence fiscale. A questo punto che serve non pagare le tasse se poi non puoi spendere quanto hai guadagnato? Se sei milionario in Crypto e non li puoi spendere è come essere milionario al Monopoli; hai solo giocato.
Per tale ragione alcuni “coraggiosi” clienti, consigliati da illuminati Consulenti fiscali, hanno deciso nel dicembre del 2017 di vendere Bitcoin od altre criptomonete ed incassare Euro; depositare poi tali fortune in conti correnti appositamente aperti in banche specializzate in tale settore, il tutto per poter “spendere” in serenità e perfettamente compliant con le norme della società occidentale, le fortune realizzate.
Diciamolo chiaramente: il percorso non è stato facile e a tutt’oggi non è del tutto concluso. Questi Contribuenti hanno dovuto affrontare intere squadre di verificatori ed avvocati bancari per vedersi concedere il privilegio di poter far arrivare serenamente dai propri exchange company, masse di denaro ex criptomoneta. Gli stessi milioni di Euro hanno poi subito nel giugno del 2018 un trattamento fiscale, così come previsto dalle interpretazioni degli interpelli, pari al 26% delle plusvalenze effettivamente incassate.
Come risultato finale ad oggi questi neo Paperon de Paperoni, possono liberamente disporre di veri milioni di Euro acquistando tutto quello che gli passa per la testa, senza temere Procure, Accertamenti fiscali od altre cattiverie del genere.
Certamente costoro hanno dovuto pagare un prezzo elevato, rispetto alla dottrinale interpretazione fiscale delle norme (Zero tax perché trattasi di operazioni a pronti), tuttavia i Contribuenti che hanno versato imposte nel giugno del 2018, tra qualche anno potrebbero vedersi arrivare dei rimborsi d’imposte, con tanto di interessi, in quanto molti hanno presentato istanza di rimborso, a cui poi seguirà un ricorso attivo (sicuramente si dovranno subire tutti e tre i gradi di giudizio). In tale caso sarà una Commissione di giudici fiscali assolutamente super-partes a decidere quale sia la corretta interpretazione delle norme.
A conti fatti forse, ci si chiede, è stato meglio restare nell’anonimato e vivere come un evasore pieno di carta moneta non spendibile, od essere totalmente compliant con le norme vigenti, e nell’alveo di queste norme, poter liberamente fruire delle fortune finanziarie guadagnate?
E
Stefania Barsalini